MOMENTO COMMEMORATIVO PER LE VITTIME DI MISURE COERCITIVE!
MOMENTO COMMEMORATIVO PER LE VITTIME DI MISURE COERCITIVE A SCOPO ASSISTENZIALE E DI COLLOCAMENTI EXTRAFAMILIARI
Testimonianza di Sergio Devecchi
Bellinzona, Aula Gran Consiglio, 27. Marzo, 2018
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Egregio Signor Presidente del Gran Consiglio
Egregio Signor Presidente del Consiglio di Stato
Gentili Signore, Egregi Signori
Cari amici
Di fronte a voi avete una vittima, una vittima delle cosiddette misure coercitive a scopo assistenziale. Ma quale assistenza? In realtà lo stato mi ha ripudiato sin dalla nascita, mi ha messo in un angolo, abbandonato ad un’infanzia ed un’adolescenza tormentata e mortificante.
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La mia colpa? Sono un figlio illegittimo. Mia madre, cresciuta in una famiglia di modeste condizioni, aveva 19 anni quando ha avuto un’avventura amorosa con mio padre, anch’egli appena diciannovenne. Non l’ho mai conosciuto. Sono stato strappato a mia madre quand’ero ero ancora un bebè di pochi giorni. Mi hanno portato in un istituto. Ho vissuto lì per 17 anni. Sin dall’infanzia sono stato usato come una docile forza lavoro plasmato dalle preghiere, da una ferrea disciplina, da una cieca obbedienza.
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Ogni domenica il piccolo Sergio si allontanava dal dormitorio per origliare dietro la porta del salotto del direttore dell’istituto. Spiava dal buco della serratura la vita di famiglia di un padre e di una madre con i suoi 4 figli. Non ho mai avuto la fortuna di appartenere ad una famiglia. Noi, i bambini internati, non sapevamo cosa fosse il calore umano, il calore di una famiglia. La vita nell’istituto era segnata da continui e dolorosi sradicamenti.
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Ho incontrato una sola volta il mio tutore, nominato da Bellinzona. Ero un ragazzino di 11 anni quando mi ha prelevato dall’istituto “Dio aiuta” di Pura. Mi ha portato all’istituto “Von Mentlen” di Bellinzona. Non mi ha neppure rivolto la parola, è rimasto muto per tutto il tempo. Dal “Von Mentlen” sono stato trasferito in altri istituti per poi approdare al “Dio aiuta” di Zizers, nei Grigioni. La tristezza di quegli anni non mi ha mai più abbandonato. Nessuno s’interessava a ciò che sentivo e pensavo. Sono ferite molto profonde. Le mie domande rimanevano senza risposta. Un bambino che non sa nulla sulle circostanze della sua nascita, crede che in lui vi sia qualcosa d’infamante, di sporco, di cattivo.
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Chi sono i responsabili di tali ingiustizie? Chi ha preso e applicato decisioni così gravi? Lo intuisco, ma è ancor oggi un mistero. Gli archivi dello stato e degli istituti in cui ho vissuto, sono molto lacunosi, non permettono di ricostruire ciò che è veramente accaduto. Molti dossier sono stati deliberatamente distrutti.
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Per molti decenni la società ha rimosso e negato questo capitolo oscuro della storia svizzera.
Anch’io ho nascosto la mia vita d’internato persino a persone che mi erano vicine, e questo per ben 60 anni. Non riuscivo a parlarne perché avevo interiorizzato un senso di vergogna e di colpa. Erano come due fratelli gemelli. Mi hanno preso in una morsa. Non riuscivo a liberarmene. Neppure quando dopo il mio internamento sono diventato, ironia del destino, direttore di alcuni istituti giovanili nella Svizzera interna. Neppure quando un giovane assistito mi ha rinfacciato che non avevo la più pallida idea delle sue sofferenze. Non gli ho detto che conoscevo molto bene tali tormenti proprio perché li ho vissuti in prima persona, sulla mia pelle. Ho fatto finta di niente.
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Ho trovato la forza di parlarne soltanto al momento del mio pensionamento, lasciando allibiti amici e collaboratori. Finalmente sono riuscito a testimoniare. Ho potuto denunciare i brutali trattamenti riservati a me e a decine di migliaia di giovani, discriminati in tutta la Svizzera. Ho raccontato la mia storia in un libro pubblicato per il momento in tedesco.
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Come ha giustamente detto Salman Rushdie: “chi non può raccontare la sua vita, non esiste”.
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Le vittime delle misure coercitive a scopo assistenziale hanno dovuto sopportare un retaggio culturale d’ignoranza, il silenzio, la repressione. La conseguenza è che molti hanno riportato ferite psicologiche gravi e dolorose, ferite difficili da guarire. Hanno lasciato vistose cicatrici.
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Il mio rapporto con il Ticino, il mio cantone d’origine, è improntato a una sorta di odio-amore. Un sentimento evidentemente influenzato da quanto ho vissuto e subìto. Le autorità ticinesi sapevano da molto tempo quanto è accaduto all’epoca, dietro le mura degli istituti e delle strutture psichiatriche. Sapevano delle spietate separazioni dei bambini dalle loro madri. Erano a conoscenza degli abusi sessuali, dell’indottrinamento religioso e del duro lavoro minorile. Con il loro silenzio, o comunque volgendo lo sguardo altrove, hanno rafforzato un tabù sociale, hanno a lungo ritardato un riesame e una revisione storica tanto necessaria.
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Ricordo il romanzo biografico di Giovanni Bonalumi, “Gli ostaggi”. Descrive la vita di un adolescente che a dieci anni, dopo la morte del padre, viene mandato in un collegio cattolico per essere avviato alla casta vita da prete. Ma non sente la vocazione. E’ attirato dalla sensualità che trapela dal mondo al di là delle mura del collegio. Tanto che il giovane sognatore si considera un ostaggio di Dio. Negli anni ’50, il libro di Bonalumi è stato ignorato nel nostro cantone, passato sotto silenzio perché considerato anticlericale.
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Gli impulsi per riportare a galla e chiarire lo scandalo degli internamenti forzati non sono venuti dall’alto. Non dallo stato, né dalle chiese. Né tantomeno dalla “coalizione dei responsabili” di tanti abusi o dai loro successori. Sono diventati complici oppure non hanno fatto nulla per correggere le ingiustizie.
Sono state le vittime stesse a farsi avanti con forza e coraggio. Le denunce sono venute dagli ex-bambini confinati in istituti o da privati, spesso in famiglie contadine. Hanno poi testimoniato, di volta in volta, anche le vittime di angherie amministrative, di adozioni forzate, di abusi sessuali, di sterilizzazioni e persino di esperimenti medico-farmaceutici.
Le loro storie sono state divulgate dai media che hanno svolto un ruolo importante. Penso in particolare al documentario “cresciuti nell’ombra” realizzato da Mariano Snider. Penso anche agli articoli-inchiesta di Simonetta Caratti. Gli storici hanno dal canto loro contestualizzato e consolidato i racconti delle vittime. Senza tutti questi contributi il triste capitolo delle misure coercitive a scopo assistenziale non sarebbe mai venuto alla luce.
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Siamo oggi riuniti per commemorare le vittime di queste misure coercitive. Un momento importante, ma non deve finire qui.
Le vittime si aspettano che la politica e le autorità del Canton Ticino facciano piena luce, che rivelino in modo schietto le spiacevoli verità sul collocamento coercitivo di bambini e adolescenti negli istituti, nelle strutture psichiatriche e nelle famiglie contadine affidatarie.
E’ impossibile cancellare o annullare ingiustizie e abusi di tali proporzioni. Si può però fare la propria parte ammettendo ciò che è avvenuto, riconoscendo una realtà con tutte le sue traumatiche storie.
Si può chieder scusa alle vittime come ha fatto, già cinque anni fa, la consigliera federale Simonetta Sommaruga. Psicologicamente è forse la forma più importante di conforto per le persone interessate.
Una forma concreta di riparazione e d’espiazione è il risarcimento delle vittime.
Queste persone sono state private, un tempo, dei loro diritti. Oggi, rievocando ufficialmente quanto è accaduto, le autorità possono restituire a queste persone il bene più importante che è stato loro tolto: la consapevolezza di esistere e di essere sempre esistite.
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Solo chi riconosce il passato può dare forma al futuro.
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Ringrazio il Presidente del Gran Consiglio Walter Gianora e il Presidente del Consiglio di Stato Manuele Bertoli per avermi dato l'opportunità di parlare in questa sede.
E ringrazio tutti voi per avermi ascoltato.